Costume e SocietàLetteratura

Il Giudizio di Locri: Leggi, Libertà e Giustizia

La Repubblica dei locresi di Epizefiri

Di Giuseppe Pellegrino

«Tu pensi donna che le leggi, a Locri, Zaleuco le abbia date per soddisfare il capriccio di un uomo ambizioso, o pensi, invece, che gli Dei abbiano illuminato il loro servo per rendere grande la madre patria? Se tu sai la risposta a questa domanda, donna, conosci il principio, ma sai anche la fine» disse il Magistrato senza aspettarsi repliche. Che non arrivarono, perché Imena, in cuor, suo rispose alla domanda.
Il Magistrato si incamminò verso l’Agorà e passò vicino all’ombra sinistra della forca, che era stata già innalzata. Non volle molto tempo per arrivarci. Salì le scale del Buleterio senza fretta e vi entrò. Il Consiglio dei Mille era già al gran completo e la folla come alla festa di Persefone. Ma come sempre, in queste occasioni, il Buletrio non conteneva la folla e Agesidamo decise per l’Agorà. Vi fu un trambusto per lo spostamento della Assemblea, ma soprattutto per la calca che cercava di guadagnare un posto nella Piazza più vicino dove si svolgevano i fatti. Agesilao era presente in prima fila con la spada e coordinava gli altri opliti. Non era un giudizio quello, ma la richiesta che chiunque del popolo poteva fare alla
Dàmos, di adeguare o sopprimere una legge. Non si vedeva stranamente Senocrito, ma forse era solo appartato. Nessuno era in ritardo e, di lì a poco, anche Tirso comparve. Non aveva il cappio al collo, un servo lo portava dietro. Anche questo era segno degli Dei, pensò Zaleuco. Il giovane non lasciava neppure un attimo da parte la sua tracotanza. Agesidamo si alzò e Tirso immediatamente mise il cappio al collo. Agesidamo invitò Zaleuco e Tirso ad avvicinarsi e disse:
«Li vi sono due scranni. Ognuno di voi si sieda. Vedo che entrambi siete venuti con il rispetto che richiede la legge. E vedo che tu Zaleuco ti sei presentato con il cappio. Dunque, tu vuoi resistere alla richiesta di adeguamento della legge fatta da Tirso?»
«Ho altra scelta, Agesidamo?» rispose con una domanda Zaleuco.
«Bene – continuò Agesidamo, ben sapendo che la domanda non richiedeva risposta – A te, Tirso, verrà data la parola per i ragionamenti che ritieni di rappresentare al Consiglio sulla necessità di cambiare la legge sull’adulterio a Locri. Poi a te, Zaleuco, il diritto di difendere la tua legge. La pena per chi non è nel giusto la sapete. Dietro di voi sta il Polemarco Zenone, il Magistrato che ha il compito di eseguire la pena.
Alla fine della decisione, il Consiglio dei Mille, senza ritardo alcuno, si regolerà secondo le leggi di Locri punendo colui che mostrato la sua temerarietà» così concluse il saggio Agesidamo.
Tirso si pose al centro dell’Agorà. Girò lo sguardo intorno a sé e guardò tutti negli occhi. Quelli del Consiglio dei Mille, la gente comune, i servi accorsi per la tenzone. Ogni sua mossa sembrava studiata e mirata, ma il suo sguardo sembrava spento. Non sfidò con gli occhi nessuno, ma si mise a fissare con lo sguardo la forca che Agesilao aveva inalzato. Lentamente cominciò, prima rivolto ai Chiloi:
«A voi che siete gli uomini migliori di Locri. A voi, che più degli altri, tenete al bene della patria, io mi rivolgo. Ma mi rivolgo anche al popolo locrese, che sulla sua pelle vive e sconta le giustizie e le ingiustizie di ogni giorno. Io non cercherò con l’arte oratoria di forzare le vostre convinzioni. Non guarderò negli occhi ciascuno di voi per lusingare la vanità del singolo e guadagnarmi il suo favore. Si dice, ma io non sono stato testimone, che l’Aeropago tenga ad Atene le sue discussioni di notte, perché l’arte ed i gesti dell’oratore non possano influenzare la riflessione sulle cose dette, non su come vengono dette. Io non ho con me, come i sacerdoti egizi, l’immagine al collo della Verità, né chiedo a voi di promettere, come fanno i giudici del tribunale degli Eliasti, che giudicherete secondo le leggi, perché vi chiedo di cambiare una legge, seppure secondo le nostre leggi. E i miei occhi guarderanno la forca, che rappresenta in questo momento la forza delle leggi locresi e offrendomi senza rimpianto a lei, se così vorrà il giudizio degli Dei e della Damos.»
Il giovane fece una pausa, come per riflettere, ma era chiaro che egli stava utilizzando la sua capacità oratoria, negando di farlo. E tuttavia, Tirso sembrava sincero. Fatta la pausa, continuò:
«Viveva un tempo a Sparta un uomo che la Polis oggi onora come un Dio. Diede alla città di Ares le sue istituzioni e le sue leggi. Onorò l’unione tra la donna e l’uomo tutelando la famiglia. Ma legiferò sul falso convincimento che proibiva alle donne sentimenti che agli uomini erano dati. Non proibì amori fuori del desco e non considerò figli impuri il frutto di tali amori. Anzi sostenne sempre che ogni vita nata sulla terra di Sparta era una vita che apparteneva alla patria e andava tutelata alla stregua di un figlio nato dall’amore di uomo e donna uniti dal desco comune. Più di una generazione è passata da quando Minerva dettò le sue leggi a Zaleuco.»

Redazione

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