Costume e SocietàLetteratura

Il silenzio del Destino tra memorie e solitudine

Storie d’altri tempi

Di Francesco Cesare Strangio

«Rimasi lì, in quella posizione, fino alle prime luci dell’alba.
Il dolore per la partenza di Marco mi lasciò un profondo vuoto nell’anima; non vedevo l’ora di fare ritorno al paese per andare a riabbracciarlo.
»
Nel tono della voce del parroco si avvertiva la nostalgia del passato, un altro elemento a tradire la sua emotività era la lucentezza degli occhi. Finito di raccontare l’episodio di quando il nonno di Marco abbandonò il seminario, si rivolse al nipote: «Dobbiamo ancora dei soldi a Marco?»
«Sì! Mancano, per il saldo, tre milioni.»
«Provvedi entro domani a saldare il debito.»
«Ho qui con me la somma mancante.»
«E allora fallo subito!»
Mario mise la mano nella tasca dei pantaloni e tirò una mazzetta da tre milioni e la consegnò a Marco.
Poco fuori il cancello, don Angelo si fermò ad ammirare la bellezza del cascinale.
Mario, dopo aver fatto salire lo zio in macchina, si mise alla guida e partirono per far ritorno a casa.
Marco avviò il motore dell’ape e prese la strada che portava al bar di Rocco Valpreda.
I vecchi amici dell’apprendistato erano tutti seduti al tavolino sulla verandina che dava sulla provinciale. Al bancone c’era Patrizia con la bambina più piccola seduta sul seggiolone, mentre Rocco stava con gli amici a bere la solita Peroni. Anche se i volti dei compagni d’arte erano cambiati, ciò non tolse a Marco di rivivere nei ricordi l’emozione delle intense giornate passate sul posto di lavoro.
Era passato un bel pò di tempo da quando, poco più che tredicenne, si presentò con il nonno sul cantiere per chiedere di essere ammesso a imparare il mestiere di muratore.
La sera del giorno dopo, quando il sole da poco aveva abbandonato i viventi, Marco sentì il campanello di casa suonare. Affacciatosi, vide la macchina di Mario alla cui destra c’era seduto il vecchio parroco. Il sorriso si stampò sulle labbra di Marco, che andò incontro agli ospiti.
«Don Angelo, Mario… a cosa devo l’onore della vostra visita?»
«È da quando è morto tuo nonno che non venivo da queste parti. Complimenti per la bella villa.»
Don Angelo si recò sul lato destro della villa in modo da potere vedere la vecchia casa dei Fera.
«Tuo nonno era un uomo al di fuori del comune. Una sera ebbe a dirmi che se ne andò dal seminario poiché era pervenuto alla conclusione che lo scopo primo di certi ambienti era di preservare e diffondere la bugia. Sosteneva, inoltre, che non sono lì per la gloria di Dio ma per il dominio dell’uomo su l’uomo.»
«Con noi non aprì mai dibattiti di una tale portata»osservò Marco.
«Tuo nonno era intelligente e riservato, non voleva esporre i famigliari alla follia della persecuzione religiosa.»
«Effettivamente non l’ho mai sentito parlare di argomenti che andavano oltre la vita» disse Marco.
«Durante la mia attività pastorale non ricordo una sola volta di averlo visto in chiesa. Si faceva vedere solo quando era chiamato in causa in prima persona.»
«Ricordo una sola volta che prese il discorso di Dio. Esordì dicendo: “Il paradosso della creazione”.
Tuo nonno mi guardò fisso negli occhi e disse: “Ti sei mai domandato chi è realmente il vero nemico dell’uomo?” Dopo di quella sera non toccò più tematiche che andassero oltre il tangibile.
»
«Accetta un mio consiglio, non porti mai domande della stessa natura che si poneva tuo nonno. Non troverai risposta perché l’uomo stesso ha posto le condizioni di non poter dare risposta a tali quesiti.»
Don Angelo rimase a lungo a disquisire con Marco.
Verso la ventunesima ora del giorno, rivolgendosi al nipote Mario, disse:«Andiamo, la mia missione è finita!»Il giorno dopo, veloce come il tuono, arrivò alle orecchie dei compaesani la triste notizia che don Angelo, durante la notte, aveva varcato la soglia dell’invisibile ed era entrato nei verdi e infiniti paesaggi senza odio né tirannie.
La notizia fece venire a Marco la pelle d’oca; ancor più il ricordo delle ultime parole di don Angelo, quando, rivolgendosi al nipote, aveva detto: “Andiamo, la mia missione è finita!”Era andato a visitare per l’ultima volta la casa in cui abitava il vecchio Marco Fera, compagno di seminario per un anno e amico sincero per tutta la vita; uomo che condusse la propria esistenza in piena libertà, senza tabù né dogmi.
Marco stava in piedi davanti casa, con lo sguardo rivolto verso i monti. Dall’altra parte della strada, tutto solo, passava un cane che dava l’impressione di porsi domande alle quali non trovava risposta: il povero animale era stato condannato a patire una parte della grande solitudine dell’universo; malgrado ciò, a differenza dell’uomo, per sua fortuna, non aveva coscienza di dover morire. Il povero animale era piegato, sottomesso al destino: non riusciva a trovare la via che lo facesse uscire dall’inferno della solitudine. Il destino, come si sa, è bifronte: da un lato appare come forza cosmica, dall’altro è quanto di più singolare riguarda i viventi, quello che ci rende singoli, inconfondibili. In buona sostanza: soli.

Redazione

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