
Di Sandro Furfaro – Avvocato del foro di Locri
Quando si parla di processo penale e ci si interroga seriamente su cosa esso sia, la relazione processo-accertamento-giudizio non può rimanere relegata nella dimensione che astrattamente la esprime come esigenza ontologica. Se dal punto di vista funzionale ogni processo altro non è che il momento di attuazione dell’ordinamento, per il processo penale fermarsi a tale constatazione non è sufficiente. Né è sufficiente considerare che esso “è uno strumento finalizzato alla ricerca della verità in relazione a un accadimento”: espressione, questa, che, pur con le diverse accezioni e specificazioni che il termine verità di solito assume in riferimento all’accertamento giudiziale, altro non individua se non la funzione del processo.
Chiara e indiscussa, infatti, la necessità che sulla sussistenza del fatto oggetto dell’imputazione, sulla punibilità di esso e sulla responsabilità di colui al quale è attribuito si conquisti la conoscenza – il più possibile completa – attraverso l’attività predefinita a tutela delle sfere di azione dei soggetti processuali e nel rispetto dei diritti garantiti, il di più che qualifica il processo penale ben oltre gli indiscussi oggetto e funzione è la particolare natura (l’essenza, si direbbe) della res iudicanda.
Se l’oggetto del processo può essere definito in termini di accertamento che un reato è stato commesso da taluno, tale definizione comporta la necessaria considerazione che il soggetto – l’uomo – al quale è attribuito il reato, oltre a essere la condizione necessaria affinché il processo esista, costituisce la materia del giudizio: la res iudicanda, appunto e, quindi, il fine del giudizio.
Non sembri, questa, un’affermazione frutto di pura astrazione, come qualcuno la considerò allorquando Carnelutti, alla fine degli Anni Cinquanta del Secolo scorso, fu il primo a dirne. Ricorda, infatti, un’attenta studiosa della dignità umana nel pensiero giuridico come altri grandi teorici del processo, quali Calamandrei e Capograssi, “hannopiù volteribaditolanecessitàcheilprocessorimangasempreamisurad’uomo;chelares iudicandanonècosadiversadalgiudicechelagiudica,unuomo;…chel’imputato,colpevoleononcolpevole,rimaneunuomosottopostoalgiudiziodialtriuominicontutteleconseguenze,ildolore,glierrori,lefallaciechequestopuòcomportare,conlacertezzacheèdifficilechevengafattaveramente,concretamentegiustizia…”.
La particolarità del processo penale rispetto a ogni altro processo sta, dunque, proprio in questo: che esso è “giudizio di uomini su uomini, si svolge nel tempo, si scompone in indefinita pluralità di atti, passa di grado in grado, e infine trova conclusione nella sentenza, che non è la verità, ma che viene considerata come verità (pro-veritate accipitur, nell’inciso latino degli antichi giurecunsulti)”. E, nel processo, “un uomo è sottoposto a giudizio, si sente oggetto di ricerca e materia di studio, il suo passato è ricostruito, osservato, scrutato. Propriamente giudicata non è una singola azione, un frammento, ma l’intera vita, spogliata, denudata, ridotta a schema, tipizzata in base alla figura di ciascun reato”.
Ciò vero, è evidente che ogni problema che concerne il processo penale non può essere affrontato che considerando l’unità che qualifica homo iudicans e homo iudicandus: l’essere, appunto, entrambi uomini, con tutto il seguito di difficoltà che ciò comporta in termini di confronto tra gli uomini e, quindi, con tutto il carico di necessità che il modo di realizzarsi di siffatto confronto sia verificato attraverso il controllo dello svolgimento in itinere delle azioni dell’homo iudicans, dell’homo iudicandus e di tutti gli altri homini che sono le dramatis personae del processo.
Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 18/04/2024