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Il primo mese di Donald Trump tra ideologie e manipolazioni

Pensieri, parole, opere… e opinioni

Alla luce dei recenti sviluppi in politica estera, voglio fare una riflessione critica sulla condizione socio-politica che stiamo costruendo per le future generazioni. L’elezione di Donald Trump per un secondo mandato nel novembre 2024 sembrava un evento prevedibile, considerato il malcontento americano nei confronti dell’operato di Joe Biden. Tuttavia, l’impatto della sua rielezione ha sovvertito ogni previsione, ridefinendo in modo radicale gli equilibri geopolitici e influenzando in maniera irreversibile le strategie delle potenze mondiali.
Un aspetto sottovalutato è stato il modo in cui Trump, sopravvissuto a un attentato alla sua vita lo scorso 13 luglio, abbia riformulato il proprio ruolo politico. Forte di un nuovo scenario internazionale segnato dalla crescente diffusione di ideologie estremiste e da un mutamento delle dinamiche di potere globale, l’ex presidente sembra essersi autoproclamato figura chiave della storia contemporanea, assumendo l’atteggiamento che ci si aspetterebbe all’esito di una sorta di investitura messianica. E l’aspetto più curioso è che questo comportamento non solo rafforza il consenso interno tra i suoi sostenitori, che plaudono a lui come il Fantozzi del mai dimenticato Paolo Villaggio plaudeva al suo presidente, ma crea un pericoloso precedente in cui il carisma personale di un leader può legittimare scelte politiche totalmente discutibili, senza un adeguato controllo democratico.
Questa concezione autocelebrativa si traduce in una politica estera imprevedibile, che non solo legittima senza esitazione regimi autoritari responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Medio Oriente, ma esercita anche pressioni sull’Ucraina in guerra affinché il suo presidente accetti una resa incondizionata. Il fatto che tutto questo avvenga dopo anni di resistenza a un’aggressione che ha compromesso la stabilità dell’Europa orientale mi fa pensare che questa condotta celi un interesse di altra natura, ma forse non è questa la sede per parlarne. Resta il fatto che l’inasprimento delle tensioni internazionali non ha fatto altro che rendere più instabile un equilibrio già precario, alimentando nuove aree di conflitto e riducendo sensibilmente le possibilità di soluzioni diplomatiche eque. La scelta di Trump di schierarsi apertamente a favore di una parte senza lasciare spazio al dialogo sta conducendo gli Stati Uniti a un punto critico nelle loro relazioni internazionali.
L’isolazionismo statunitense ha infatti raggiunto nuove vette con la ripresa dei lavori di costruzione del muro al confine con il Messico, l’imposizione di dazi del 25% sui prodotti europei e persino la provocatoria decisione di rinominare il Golfo del Messico in Golfo d’America. Queste misure, radicate in una logica di nazionalismo economico e suprematismo americano, stanno suscitando perplessità persino tra gli alleati più coriacei di Trump, evidenziando le contraddizioni interne della sua agenda politica. La progressiva chiusura dell’America al resto del mondo, anziché rafforzare l’economia nazionale, come sostenuto dalla retorica trumpiana, rischia a lungo termine di isolare il Paese dai principali flussi commerciali internazionali, con conseguenze che potrebbero essere devastanti, come peraltro prospettato in una recente lettera della presidente messicana Claudia Sheinbaum.
La sempre solida posizione socioeconomica statunitense, tuttavia, rende la macchina propagandistica di Trump capace di trasformare azioni politiche controverse in narrative giustificabili agli occhi dell’opinione pubblica, oggettivamente spaventata dalla possibilità di perdere il favore degli alleati americani. Una situazione simile a quella venutasi a creare con la Russia, la cui tenuta economica e politica nonostante le sanzioni occidentali all’indomani dell’attacco all’Ucraina sta finendo con il farci riconsiderare la legittimità delle posizioni del Cremlino, come peraltro proprio Trump ci ha dimostrato nel recente attacco frontale a Zelensky. Questa manipolazione della realtà politica è resa ancora più efficace dalla diffusione sistematica di disinformazione, che mina la capacità critica delle società democratiche e rende sempre più difficile distinguere tra narrazioni propagandistiche e fatti oggettivi.
Diventa quindi essenziale interrogarsi su quanto il nostro giudizio stia venendo plasmato dagli eventi internazionali e se stiamo progressivamente accettando, senza una reale opposizione critica, la direzione imposta dai leader globali. Se non poniamo un argine ora, rischiamo di ritrovarci con un’eredità politica e sociale ridotta in cenere, senza aver mai veramente tentato di contrastarla. L’indifferenza e la passività delle società occidentali di fronte a questi cambiamenti potrebbero essere l’elemento determinante per il consolidarsi di nuovi assetti geopolitici che difficilmente potranno essere invertiti in futuro. È dunque doveroso non solo mantenere alta l’attenzione, ma anche riconsiderare il ruolo che la comunità internazionale può e deve giocare per salvaguardare i principi di democrazia, giustizia e libertà che sono alla base del nostro vivere civile.

Foto di Daniel Torok – Official 2025 portrait of the White House, Pubblico dominio

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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