Un matrimonio, un viaggio, un ricordo eternamente vivo

Di Francesco Cesare Strangio
Mandato giù il caffè, Marco domandò a Mezza se sarebbe stato presente al suo matrimonio.
Mezza fece notare a Marco che, essendo del mestiere, si era reso conto che per ultimare i lavori ci poteva volere al massimo una decina di giorni lavorativi, quindi sulla sua presenza e quella di Gabriella ci poteva tranquillamente contare.
Sulla porta della cucina si affacciò Gabriella. Era come sempre sorridente.
«Buon giorno! È arrivata l’ora della partenza?»
Il tono della voce della donna portava con sé una lieve tristezza.
«Eh sì… dobbiamo sbrigarci, sennò va a finire che perdo il treno.»
Gabriella aprì il frigo e prese un sacchetto in cui c’erano otto panini preparati la sera prima e li diede a Marco per il viaggio.
Marco Fera ringraziò Gabriella per il pensiero; prese i panini e li infilò dentro lo zaino.
Dopo avere salutato la ragazza, i due amici uscirono e presero la via che portava alla stazione ferroviaria; distava poco meno di un chilometro dalla casa di Salvatore Mezza Cazzuola.
Alla biglietteria, quella mattina, non c’erano le solite file chilometriche e, nel giro di cinque minuti, Marco aveva il biglietto in tasca.
Il suono emesso dal fischietto del capostazione avvertì i passeggeri che il treno stava per partire. Marco abbracciò Mezza Cazzuola e lo ringraziò per tutto quello che aveva fatto per lui. Nel riabbracciarsi, presero l’impegno di vedersi quanto prima giù al paese.
Salito a bordo, si udirono tre fischi consecutivi e il treno mosse verso la sua meta.
Un lungo viaggio di ventiquattro ore lo portò a destinazione: aveva portato a casa la ricevuta di una banca elvetica attestante il deposito di cinquecento milioni di lire.
Marco riprese il lavoro con l’impegno e la professionalità che era solito prestare.
Quindici giorni dopo il suo rientro a casa, a tarda sera, sentì suonare il citofono: davanti al cancello c’erano Salvatore Mezza Cazzuola e Gabriella. Come promesso, erano rientrati per stabilirsi definitivamente in Calabria.
Il giorno dopo passò da donna Angelina e andarono dal Giordano e sottoscrissero il contratto per l’acquisto del bar della stazione.
Era iniziato il conto alla rovescia per la celebrazione del matrimonio: mancavano soltanto quattordici giorni.
A quei tempi era uso che partecipassero al matrimonio tutti i parenti, gli amici e i conoscenti.
La sera, prima dell’ora di cena, Marco iniziò, in compagnia di Rocco Valpreda e Salvatore Mezza Cazzuola, il giro degli inviti verbali: ancora non si era diffusa la moda del cartaceo.
In cinque sere completò il giro senza tralasciare nessun conoscente; lo stesso fecero i fratelli di Gladuela Chinnici.
Era l’ultima domenica del mese di settembre, Marco, con gli amici e una parte degli invitati, partirono da casa per recarsi all’appuntamento con la sposa davanti al grande portone della chiesa madre del paese dove, fino a un paio di mesi prima, ufficiava la santa messa don Angelo.
Puntualmente, alle dieci, Marco e gli invitati arrivarono alla chiesa, dove c’era un folto numero di persone ad attendere gli sposi, tra cui Mastro Filippo, il farmacista, il medico, Mario, la famiglia Carducci, Nicoletta e Teodora.
Sorrisi, pacche sulle spalle e baci fecero compagnia allo sposo in attesa che arrivasse Glaudela con i suoi invitati.
Verso le dieci e trenta, in fondo alla strada, una processione di volti indistinti accompagnava la sposa tutta vestita di bianco con fianco i due fratelli che, tirati di tutto punto, la portavano sottobraccio. Quattro paggi le reggevano il lungo velo bianco.
Un lungo e caloroso applauso accolse Gladuela la cui bellezza era pari ai fiori dei giardini di marzo.
Marco la accolse con un grande mazzo di rose; i due fratelli, avvicinatosi con la sposa allo sposo, fecero un passo indietro e Marco prese Gladuela sottobraccio e mosse verso l’altare.
Intanto, dietro al castello, seduto sulla vecchia panca, un uomo dalla veneranda età ammirava i filari delle ginestre che si perdevano nell’orizzonte dei monti che parevano tante sculture create dalla mano paziente dello scalpellino del tempo. I pensieri del vecchio andavano e venivano come le onde del mare, con la curiosità di sempre, i suoi occhi indagatori scrutavano curiosi il cielo, intenti a cogliere il volo degli uccelli in transito; alle sue spalle ogni cosa, si perdeva nell’infinito nulla.
La volontà di potenza è il senso dell’essere, è la vita intesa come forza espansiva e autosuperantesi; per una tale ragione bisogna conservare, con ogni mezzo, il sapere umano dalla possibile rapina del nulla…
Dedicato a tutti coloro che fisicamente non ci sono più, ma rimangono per sempre vivi nei ricordi, assumendo questi la dimensione dell’eternità.