Costume e SocietàLetteratura

La Sacra Prostituzione di Locri: tra mito, giustizia e tradizioni

La Legge è uguale per tutti

Di Giuseppe Pellegrino

La grande Stoà in cui si recarono le fanciulle che avrebbero esercitato la sacra prostituzione era posta fuori delle mura della città e aveva ben undici oikpoi, stanze, situate a forma di ferro di cavallo. Al centro una grande statua di Afrodite e tutti intorno dediche alla dea dell’Amore.
Tanti gli stranieri venuti o sbarcati con le navi. Le fanciulle discinte erano a gruppi nei recinti sacri alla Dea Afrodite e aspettavano. Gli uomini che si avvicinavano portavano in mano una ghirlanda di fiori e la mettevano al collo della donna prescelta. La donna baciava l’uomo sulla guancia e poi i due si appartavano. Ma spesso, più che sesso, era solo uno strusciare di corpi, una voglia espressa con le mani e con la bocca, poiché più di uno sceglieva la stessa donna, e la mancanza di intimità non favoriva la congiunzione. E poi le vergini locresi erano inesperte. Donne da poco tempo, non use all’amore, che in quel momento sembrava violenza. E tuttavia, la folla aumentava e i baci e i sospiri e le parole di fuoco arrivavano alla dea. Ma non si sentivano grida né sguaiatezze, solo inni all’amore consumato malamente e con l’ebbrezza dei sensi non controllati, come in un’orgia immensa e pubblica. Alcuni marinai mandavano alla Dea canti di amore e facevano danze mimiche allusive e licenziose. I più vecchi avevano imparato canti e danze a forza di partecipare a tante feste a Locri. Poi le avevano insegnate ai più giovani, racontando il mito della Festa della Sacra Prostituzione. Nessuno di loro sapeva che quei canti e quei balli erano stati inventati a Locri e che Senocrito ne era l’autore.Il poeta sapeva della cosa. Poco gli importava che nessuno ricordasse il suo nome. Era sicuro che quei canti e quelle danze gli avrebbero dato l’immortalità.
Alla sera del terzo giorno, finita la festa, Ofelia, la donna più amata, fece contare le corone di fiori che aveva ricevuto. Trenta contò la sacerdotessa. E Ofelia fu la regina della sacra prostituzione. Portò le corone a Afrodite e a Persefone.
Finita la festa la vita di Locri tornò alla sua normalità. Restava il problema di Ilone, ma occorreva anche amministrare il quotidiano. La festa della Sacra Prostituzione sempre generava dei conflitti e così fu anche quella volta. Zaleuco si recò nell’Agorà. Qualcuno reclamava giustizia e il magistrato non poteva esimersi. L’Agorà era di buone dimensioni. Lato mare era libera onde permettere un accesso diretto con la Dromo. Sulla destra e sulla sinistra, per chi camminava verso monte, vi erano due stoà, che disegnavano la forma trapezoidale della piazza, presso le quali le gente passeggiava e conversava. Alle stoà non era possibile fare mercato. A monte dell’Agorà si trovava il Buleterio, in cui il Consiglio dei Mille teneva le sue riunioni, ma che era anche il luogo di giustizia. Qui, seduto sullo scranno ,quel giorno il magistrato dava le sue sentenze. Il Buleterio aveva una entrata a portico libera, con colonne di marmo bianco. Sui lati i muri avevano delle aperture per l’aria, ad altezza maggiore di un uomo. Per dare maggior solennità alla figura,il magistrato aveva indossato sopra il chiton la Clamide, che teneva appuntata sopra una spalla con un fermaglio di bronzo. Era l’unica vanità che il magistrato si concedeva e solo in occasione dei giudizi. Per il resto amava vestirsi con il solo chiton anche di inverno, a meno non fosse particolarmente rigido.Gli opliti avevano trovato un marinaio con un’otre di pelle piena di vino alla fine della festa della Sacra Prostituzione e il puzzo che veniva dalla sua bocca, che emanava un odore dolciastro, li aveva convinti che avesse bevuto vino puro, senza stemperarlo con l’acqua, in violazione dell’inviolabile sacra legge locrese. L’uomo fu portato davanti al magistrato dallo stesso soldato che, sentitolo puzzare, per sicurezza aveva preso l’otre e l’aveva portata davanti al legislatore.Zaleuco chiese all’uomo come si chiamasse e da dove venisse.«Mi chiamo Cinna e vengo dalla Calcide, sono un marinaio dell’Enotria, venerabile».
«È tua l’otre che è in mano al soldato?»continuò Zaleuco, dopo aver fatto un cenno quasi invisibile di disappunto alla parola venerabile, che più si adattava a un vecchio, e aver passato la mano sulla benda che copriva l’occhio mancante.«Sì, venerabile» confessò Cinna, impaurito. Non era stato mai a Locri, ma la fama dello Splendente aveva solcato i mari e sapeva della severità della giustizia che solo a Locri aveva tavole scritte. Lo impressionava soprattutto la figura del vecchio e la benda sinistra all’occhio.
«Nell’otre vi è vino puro, non addolcito con l’acqua?» incalzò Zaleuco.
«No, magistrato – disse l’uomo, deciso. – Prima di scendere dalla nave il comandante Teresio mi aveva avvisato della pena per chi beve vino puro, anche se ammalato e con l’ autorizzazione del medico. Ho mescolato ben dieci volte il vino portato dalla Grecia prima di metterlo nell’otre. Dalle nostre parti si usa onorare Persefone e Afrodite anche onorando Dionisio» debolmente si difese Cinna con sguardo ormai da ebete per la paura.

Redazione

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