Costume e SocietàLetteratura

Giustizia e tradizioni a Locri

La legge è uguale per tutti

Di Giuseppe Pellegrino

«Se non mi credi, magistrato, assaggialo, o fallo assaggiare dai soldati e potrai vedere che dico la verità» disse con tono disperato il marinaio Cinna, negando l’accusa di aver bevuto vino puro, in violazione della legge locrese, ma già vedeva il cappio davanti a sé.
Zaleuco si rivolse al soldato e chiese: «Come sai che il vino contenuto nell’otre è vino puro?»
«Splendente, rispose il soldato, il vino emana un forte odore dolciastro e anche dalla bocca dell’uomo si sentiva un forte odore».
«È perché si tratta del nettare degli dei che ho portato dalla madre patria, è vino greco, dolce e profumato, ricavato dall’uva passa, esposta al sole per giorni e giorni prima di essere premuta. È un vino che inebria all’odore anche quando lo mesci cinquanta volte, ma non ti trasforma in demone. Ti prego, venerando, assaggialo!» implorò Cinna.
Zaleuco era adirato, non si capiva se più per la furbizia dell’uomo o per il fastidio che provava per la parola venerando. Capiva che l’uomo o aveva detto la verità affermando che il vino era stato mescolato all’acqua e, chiedendo di assaggiarlo, dimostrava di essere degno discendente di Ulisse. Se lo avesse fatto il magistrato, o anche un soldato, o l’uno o l’altro avrebbe violato la legge, se il vino era puro, dovendo così soggiacere alla stessa pena. E poi il marinaio non sembrava per niente ubriaco. Man mano si calmò. Ricordò per sé il precetto di Atena:“I Magistrati non siano ostinati, non giudichino per fare oltraggio, e nel dare le sentenze non abbiano presente né l’amicizia, né l’inimicizia, ma con giustizia”. Si ricordò pure del precetto che dettava l’esclusione dai pubblici uffici colui che si faceva vincere dall’ira, come pure che la legge scritta era stata introdotta perché la pena non fosse commessa all’arbitrio dei magistrati, come non poteva l’opinione dei giudici espressa nelle sentenze essere la medesima intorno alle medesime cose. Tutte queste cose passarono per la mente del magistrato in quel momento, mentre era consapevole di essere sotto l’influsso del disappunto e dell’ira per la sensazione di essere stato turlupinato dal greco.
Tuttavia, memore della massima che un giudice doveva giudicare con serenità e imparzialità, senza farsi condizionare da fisime personali, Zaleuco, come a un discepolo, spiegò: «Tu, Cinna, ora potrai conoscere la giustizia locrese. Tu potrai dire quando tornerai nella tua patria che a Locri vi è certezza delle leggi e qui la giustizia è uguale per tutti. Vedi, Cinna, quando uno è ospite cerca di conoscere le abitudini del suo ospite per adeguarsi. Tu hai dimostrato di conoscere le leggi e forse le hai violate. Ma la nostra legge è ispirata dagli Dei e la legge ci è stata dettata da Atena, secondo il principio meraviglioso che tutto nel cielo e sulla terra è in armonia e non è opera del caso. E Atena, quando la conta dei giudici è pari o il giudizio incerto, si schiera per l’innocenza. Così sarà. Ma ti ricordo, Cinna, che un uomo ubriaco è al di fuori di questa armonia e tanti misfatti sono stati compiuti sotto gli effluvi del vino. La legge vieta l’uso del vino puro, ma nessuno di noi può stabilire che tu non lo abbia mesciuto. La legge è stata fatta per i locresi ed è scritto nelle tavole che: “Se alcuno dei locresi di Epizephiri, ammalato, avrà bevuto vino puro senza essergli ordinato dal medico, sebbene sia ritornato sano, sarà punito con la morte, perché ha bevuto di sua volontà”. Ma tu, Cinna, sei greco della madre Calcide; non sei della Locri Epizephiri. Perciò prendi la tua otre, portala subito a Persefone e ritorna sulla tua nave senza più discendere. Non vi è nulla di più dannoso del cattivo esempio, e tu lo hai dato».
A Cinna non parve vero di averla scampata. Aveva sperato che la confusione della Festa della Sacra Prostituzione nessuno si sarebbe accorto dell’otre, nella quale diceva esserci acqua. Pensò, il marinaio: “Ti ringrazio, Afrodite, per avermi fatto giudicare da Zaleuco”. Non sapeva il marinaio che tutti temevano questo privilegio.
Venne introdotto il secondo caso. Una giovinetta aveva convocato davanti al Magistrato un marinaio della Polifemo chiedendo fosse ordinata la consegna di una corona di bronzo, con fiori di rame che sosteneva di essere sua. Zaleuco invitò la giovinetta ad avvicinarsi e le chiese come si chiamasse.
«Clelia», rispose la giovinetta.
«Dimmi qual’è il torto che hai ricevuto», farfugliò Zaleuco. In cuor suo sembrava pensare che non fosse una buona giornata.
«Io – cominciò la giovinetta, – ho partecipato alla festa della sacra prostituzione. Come sai, Splendente, è d’uso che i forestieri che si avvicinano ai sacri recinti della peripoli debbono portare alla donna che avvicinano una corona di fiori. Quest’uomo non l’aveva, ma mi mostrò un serto di bronzo e rame lavorato finemente, dicendo che di uso dalle sue parti che la corona fosse degna della giovinezza della donna e che la avrebbe depositata sulla mia fronte, facendomela vedere. Ma dopo che ci siamo appartati, se ne voleva andare senza dare il dono dovuto. Ho chiamato i soldati e oggi siamo di fronte a te.»
Zaleuco invitò il marinaio ad avvicinarsi e chiese il suo nome.

Redazione

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