Attualità

La Domenica delle Palme insanguinata e il fallimento della “pax trumpiana”

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Un lampo arancione, rapido e mortale, ha infranto l’illusione di una tregua possibile. Una scia di fuoco, immortalata da una dashcam, ha spezzato la quiete di una mattina che avrebbe dovuto essere consacrata alla spiritualità e alla memoria religiosa. Sumy, Ucraina, ore 10 del mattino della Domenica delle Palme: due missili balistici Iskander colpiscono in pieno una città in fermento, con le strade popolate da fedeli diretti verso le chiese. In pochi istanti, l’ordine si trasforma in disordine, la vita in morte, la quotidianità in inferno. Le sirene si sovrappongono alle grida, il cielo si oscura di fumo e polvere, mentre i sopravvissuti vagano tra le rovine.
Trentaquattro morti, inclusi due bambini. Più di centoventi feriti. Le immagini documentano con crudezza la distruzione: corpi distesi sotto coperte termiche, edifici scolastici sventrati, infrastrutture civili annientate. Un’azione bellica che non colpisce un obiettivo militare, ma una comunità. Un attacco che si consuma in un giorno carico di significato per milioni di cristiani, segnando un paradosso tragico: la commemorazione dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme trasformata in una carneficina.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha parlato di «terrorismo intenzionale». Tuttavia, più dei missili, risuona il vuoto delle risposte internazionali, il silenzio delle diplomazie, la sparizione dalle cronache di quel progetto di pace che il presidente statunitense Donald Trump aveva pubblicamente promesso. Che fine hanno fatto le dichiarazioni roboanti, le promesse di una soluzione in 24 ore, le immagini costruite ad arte per i media? Quello che resta, oggi, è un fallimento palese.
La pax trumpiana si rivela un’illusione retorica, priva di sostanza geopolitica. Nessuna traccia di risultati tangibili, nessun accordo negoziale, ma solo la drammatica realtà di un’Europa dilaniata e di un Medio Oriente che non se la passa meglio. In contemporanea all’attacco di Sumy, infatti, Gaza veniva colpita da un bombardamento su un ospedale, evidenziando la simultaneità e la gravità di due crisi umanitarie che si svolgono in parallelo. Questi eventi dimostrano che ciò che viene spacciato come diplomazia è, in realtà, una rinuncia alla mediazione e alla responsabilità internazionale.
A tutto ciò si aggiunge la retorica ipocrita dei leader politici occidentali. Di fronte alla strage, la presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha espresso una condanna che, personalmente, ho interpretato come un’omissione morale: «violenza che contraddice gli sforzi di pace promossi da Trump». Un’omelia diplomatica che ignora i fatti, che piega la realtà a un’esigenza di alleanza strategica e che si traduce, di fatto, in un’adesione passiva a una linea politica fallimentare.
Il principio della forza ha sostituito quello della legalità internazionale. La diplomazia si è ridotta a performance mediatica, le trattative sono diventate teatrini politici, e i leader autoritari – da Vladimir Putin a Benjamin Netanyahu – operano con crescente spregiudicatezza. Le tregue proposte sono deboli, temporanee, e spesso strumentali. Gli appelli umanitari si perdono nel frastuono dei conflitti. Ogni iniziativa di pace si dissolve in un contesto globale in cui prevalgono gli interessi economici e le logiche militari.
In questo scenario, a subire le conseguenze sono sempre i civili. I bambini che muoiono mentre partecipano a eventi culturali, le famiglie distrutte sotto le macerie, i superstiti segnati nel corpo e nello spirito. Le bandiere ucraine che sventolano tra le rovine sono diventate simboli di resistenza e di identità collettiva. Quei colori, sopravvissuti ai bombardamenti, raccontano una volontà di non cedere, di affermare il diritto alla speranza e alla libertà.
La Domenica delle Palme del 2025 passerà alla storia come una delle più oscure della contemporaneità. Non soltanto per la violenza in sé, ma per ciò che essa rivela: l’impotenza o la complicità di una politica internazionale che ha abdicato al proprio ruolo etico. Se le istituzioni non sono capaci di garantire la sicurezza in un giorno emblematico di pace, se il pragmatismo geopolitico giustifica l’arroganza dei regimi autoritari, allora ciò che si consuma è una sconfitta collettiva. Una crisi di legittimità, una perdita di civiltà, una frattura nella coscienza democratica.
Sumy ci interpella. E pretende risposte. Non possiamo ignorare quella domanda. Non possiamo più limitarci a osservare…

Foto: ansa.it

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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