
Il 25 aprile, ottantesimo anniversario della Liberazione, avrebbe dovuto rappresentare un momento di coesione nazionale, di rinnovato patto tra generazioni e cittadini attorno ai valori fondativi della nostra Repubblica. E invece si è trasformato ancora una volta in un terreno di scontro ideologico, rivelando in maniera plastica quanto sia fragile, stratificato e ambiguo il nostro rapporto collettivo con la memoria storica e con i principi della convivenza democratica.
In questi giorni, sui social è tornata in auge una dichiarazione che Roberto Vannacci, generale in congedo ed europarlamentare della Lega, ha rilasciato durante il Festival di Sanremo, in occasione del quale una giornalista l’aveva avvicinato chiedendogli se si definisse antifascista.
«No, nella maniera più assoluta – ha replicato il generale. – Il fascismo è finito ottant’anni fa. Non si chiede a nessuno se è antinapoleonico o antigiacobbino, non vedo perché debba essere richiesto di essere antifascista.»
Queste parole, subito bollate come superficiali da tanti oppositori, mi trovano invece sostanzialmente d’accordo, perché pongono una questione reale e urgente: in qualità di fondamento imprescindibile della nostra democrazia repubblicana l’antifascismo, oggi, non può essere relegato a mero elemento di militanza politica o a categoria retorica e la sinistra, da cui Vannacci afferma di non volersi far dare una “patente” di pirandelliana memoria, si è spesso resa colpevole proprio di aver politicizzato gli ideali partigiani trasformando la Liberazione in una contrapposizione di ideali politici. Se è vero com’è vero che il sonno della ragione genera mostri, continuando a scavare questo solco ideologico la situazione si è incancrenita così tanto da diventare estremamente pericolosa, perché ha aperto la strada a revisionismi e nostalgie incompatibili con l’assetto costituzionale.
Con buona pace di Vannacci, infatti, un episodio emblematico si è consumato a Dongo, sulle rive del Lago di Como, luogo carico di memoria storica in quanto teatro della fine tragica della Repubblica Sociale Italiana. Come accade da diversi anni a questa parte, infatti, nostalgici del regime fascista si sono radunati per commemorare Mussolini e i gerarchi della RSI. Sono stati documentati saluti romani, cori inneggianti alla dittatura e simboli apologetici, senza alcun intervento repressivo da parte delle forze dell’ordine, che anzi sembrano aver tollerato l’inaccettabile.
Al contrario, a pochi metri di distanza, gli antifascisti riuniti dall’ANPI sono stati circondati dalla polizia, sottoposti a controlli e vigilanza stringente, in una dinamica paradossale che ribalta i codici democratici e che dimostra una volta per tutte che, tutto sommato, il fascismo e tutt’altro che finito.
La disparità di trattamento sopra descritta solleva anzi interrogativi profondi sulla tutela effettiva dei principi costituzionali e sulla fedeltà delle istituzioni ai valori fondativi della Repubblica e a rendere ancora più chiaro il quadro è il caso di Lorenza Roiati, titolare del panificio L’assalto ai forni e nipote di due partigiani, che aveva esposto uno uno striscione che recitava “25 aprile, buono come il pane. Bello come l’antifascismo” in occasione della Festa della Liberazione.
Quello di Lorenza era un gesto simbolico e pacifico, che le è costato però due identificazioni da parte della polizia, quasi fosse una minaccia all’ordine pubblico.
Un atto che evidenzia come l’espressione di valori costituzionali possa oggi essere percepita, paradossalmente, come un atto di rottura, piuttosto che di adesione al patto democratico da cui origina la nostra convivenza civile.
Non solo: la notte successiva, davanti al suo negozio sono comparsi striscioni contenenti allusioni gravissime, che richiamavano l’orrore dei campi di sterminio nazisti. Un’azione intimidatoria vile e gravissima, aggravata dal silenzio istituzionale che ne è seguito, quasi a voler minimizzare l’accaduto.
Alla luce di questi eventi, occorre affermarlo con chiarezza e senza ambiguità:
Radunarsi in camicia nera, fare il saluto romano, celebrare la memoria della dittatura non può essere considerato folklore o esercizio di libertà d’opinione. È diventato un problema politico, è un vulnus ai valori della convivenza civile, un insulto alle vittime del fascismo e alla storia della Resistenza.
In uno Stato democratico, chi onora la Resistenza deve essere tutelato e rispettato; chi celebra il fascismo deve essere sanzionato, socialmente e giuridicamente, senza tentennamenti.
Quanto avvenuto a Dongo e la vicenda di Lorenza indicano che questo principio oggi è messo in discussione, anche dentro quegli apparati dello Stato che dovrebbero essere i primi a difenderlo.
Per questo, con razionalità, coraggio e senza remore, dobbiamo ribadire essere dalla parte di Lorenza, dalla parte de L’assalto ai forni e, in definitiva tutti antifascisti non per ideologia sterile o appartenenza partigiana, ma per il dovere civile e morale di preservare la memoria, difendere la democrazia e garantire un futuro libero da ogni tentazione autoritaria, che si rivelerebbe egualmente una minaccia non solo per chi canta Bella ciao, ma anche per chi grida «Presente» con il braccio teso al cielo…