
Di Giuseppe Pellegrino
«Io credo che siamo parte della grande Anima dell’Universo e che perciò l’anima non può morire, ma solo passare da uomo in cosa, da cosa in animale fino alla liberazione finale con il ritorno alla Grande Anima dell’Universo» rispose Strabone a Zaleuco che gli aveva appena chiesto se credesse nella trasmigrazione dell’anima.
«La mia ricerca – fece una pausa e poi si corresse, – la nostra ricerca è quella di eliminare il tormento millenario della trasmigrazione e fare raggiungere l’anima alla perfezione il più presto possibile», rispose il marinaio.
La curiosità di Zaleuco era all’apice. L’occhio mancante sembrava pulsare sotto la benda. Dimentico del processo che stava celebrando e dimentico di Clelia e delle sue amiche, che ascoltavano mute per il terrore che incuteva il magistrato, ma che non capivano che cosa tutto questo c’entrasse con il serto di bronzo e rame, Zaleuco continuava nell’indagine sul passato di Strabone, che gli sembrava d’istinto una persona ragguardevole, e chiese: «Hai fatto sempre il marinaio?»
«Ho imparato in Egitto e poi perfezionato in Grecia l’arte di curarmi degli altri. Ho imparato che l’universo è fatto di fuoco, aria, acqua e terra e che a questi quattro elementi corrispondono quattro umori ,il catarro, il sangue, la bile gialla e la bile nera e a questi quattro temperamenti che incidono sulla salute, il temperamento flemmatico, quello sanguigno, quello collerico e quello melanconico», rispose Strabone.
«La tua patria nativa è Samo, hai detto, Strabone? – dolcemente chiese Zaleuco, convinto di ferire la sensibilità del marinaio – o Atene? Sei tu un uomo libero o colpito dall’ostracismo?»
Chissà perché Strabone decise di rispondere nel modo più sincero possibile: il passato era suo, nessuno poteva saperlo. Ma quell’uomo gli incuteva timore, ma anche reverenza e fiducia e la Polifemo era partita senza di lui. Sinceramente rispose: «Megara è la mia patria natia, o Splendente. Sono stato con Teagene alla rivolta che portò al massacro del bestiame dei ricchi, che rendevano schiavi per debiti i poveri per prestiti ad alti interessi. Con Teagene abbiamo portato l’acqua corrente in città e poi, con il marito della figlia, si tentò di coinvolgere Atene. Ma Atene non amava la Tirannide, e i cittadini preferirono la servitù dei padroni al dominio di un solo».
«Volevi tu diventare un tiranno?» domandò Zaleuco.
«Non lo voleva Teagene; non lo volevo io. Volevamo solo essere il riferimento dei poveri e degli oppressi – rispose Strabone. – Vedi, magistrato – continuò il marinaio.- Dalla Lidia da tempo è venuto un nuovo modo di commerciare. Per comprare le sementi di grano per la semina non basta dare olio o altro, ma si vuole oro, bronzo o rame, coniati in un piccolo cerchio a rilievo. Solo i ricchi ce l’anno e la prestano con usura; fanno singrafe con i contadini. A volte la terra, magistrato, produce solo sudore e lacrime, ed è previsto che chi non paga i debiti diventi schiavo del suo creditore. Da questa schiavitù voleva liberare gli Ateniesi Teagene e io mi entusiasmai. Ma gli ateniesi preferiscono parlare, piuttosto che obbedire, e si rivoltarono. Io sono scappato e vado in giro per il mondo. Imparo da tutti, Splendente; anche di te e delle tue leggi sono venuto a conoscenza in Grecia. So che le vostre leggi vietano la singrafe».
«Sì, Strabone – rispose Zaleuco, gongolante, – la nostra legge prevede che per cautela di bene dato a mutuo non si facciano singrafi».
All’improvviso il magistrato sembrò ricordarsi del processo e, anche se in cuor suo credeva a Strabone, decise di affrontare l’argomento, ma anche qui alla fine Strabone lo sorprese. «Dunque – cominciò il legislatore. – Clelia ha portato le sue amiche per la controversia della ghirlanda. Tu insisti di non averla promessa alla donna?»
«Magistrato, ti ho raccontato come ho avuto il serto, frutto della mia vittoria e dal quale per nessun motivo di sarei separato. Ma oggi mi trovo ancora nella condizione di eterno profugo. La Polifemo ha tolto le ancore e Talete, dopo questo processo sicuramente vorrà la mia morte. Io sono medico e profugo e ti dico, Zaleuco, io regalerò la mia corona a Clelia se accetterà di dividere con me il desco e se Locri darà rifugio al mio corpo ancora giovane ma stanco di vagabondare».
La risposta lasciò ancora una volta meravigliato il Magistrato e la sua mente pensò che sarebbe stata un’ottima soluzione. Per la giustizia, per Clelia e anche per Locri che non aveva molti medici, troppo costosi e non usi a spostarsi dalla Grecia. Per il resto era il Tempio di Asclepio a Petracappa. Si voltò verso la donna e chiese: «Tu che ne pensi, Clelia?» La donna rispose di getto:«Devo chiedere ai miei genitori, ma ho dato a Strabone la mia verginità e sarei contenta di dividere con lui il desco comune».
«Bene – concluse il Magistrato. – La risposta mi sembra che esaudisca la condizione che tu pretendevi per il dono, Strabone. Quanto alla richiesta di asilo, marinaio a Locri sono graditi tutti coloro che vengono in pace e rispettano le sue leggi. Tu potrai esercitare la tua arte di medico e non ti intrometterai nelle faccende politiche.»