
Di Giuseppe Pellegrino
Ci volle qualche minuto per sentire lo scricchiolio della porta e vedere una faccia terrea con i capelli non del tutto raccolti fare capolino.
«Chi siete, che volete ?» disse la donna.
«Io mi chiamo Zaleuco» disse pronto il magistrato. La donna sembrò non capire. Poi realizzò e chiese: «Tu sei il magistrato?»
«Sì, donna» confermò l’uomo. Lisippa sapeva di Zaleuco e della sua fama di uomo probo e giusto. Lasciò da parte la sua paura e uscì fuori, chiudendo la porta.
«Il bambino è con te, donna?» chiese il magistrato. E la donna capì che l’uomo sapeva tutto. Fece sì con la testa e decise di fidarsi. D’altronde non aveva altra scelta. Se Zaleuco lo aveva trovato, altri lo avrebbero fatto presto. Perciò invitò il magistrato a entrare in casa. L’arredo era povero e a un tavolo vi erano solo due piccole panche. Invitò i due uomini ad entrare e li fece sedere al tavolo. «Mi dispiace di non avere neppure un poco di vino da offrirvi, anche se so che tu, Pastore, non bevi». Zaleuco fece segno che non aveva importanza, fu felice di essere stato riconosciuto, ma ancor di più che la donna conoscesse talmente le leggi di Locri da sapere anche delle abitudini del magistrato. Invero, la vanità ebbe il sopravvento.
«A che debbo l’onore della tua visita?» chiese con cautela la donna, seppure ormai conscia della ragione.
«Tu sei Lisippa?» chiosò il magistrato. La donna fece di sì con la testa.
«Hai un bambino, con te?» continuò il magistrato. La donna fece ancora di sì con la testa e con la mano indicò a stanza vicina, dove si capiva che il piccolo stava dormendo.
«Agesilao – disse Zaleuco indicando con un gesto l’oplita, – ha trovato tua figlia Nefele coperta di sangue e uccisa a Locri. Credo che tu sappia chi è stato e perché lo abbia fatto».
La donna, sempre circospetta, rispose: «Io ho paura, magistrato. Non so che fare. Ma di te mi dicono che sei persona onesta. Con qualcuno devo pur parlare, perché non posso sempre nascondermi. Prima o poi mi troveranno. Non temo per me, ma per quella creatura che dorme nell’altra stanza e che non capisce quanto è avvenuto». Non era ancora una risposta, ma Zaleuco restò muto. La donna, dopo qualche istante, continuò: «Devi avere pazienza, Pastore, e lasciarmi dire senza interrompermi, anche se il mio discorso sarà lungo e poco logico, perché la risposta alla tua domanda non sarà comprensibile se non non saprai tutto della mia vita» fece come lunga premessa la donna. Si fermò solo un attimo per dare un qualche ordine ai pensieri, mettendo le mani ai capelli, e continuò: «Io sono figlia di Timone e di Cleope. Mio padre, come prima ancora suo padre, non aveva voluto allontanarsi da quella terra che i nostri padri hanno chiamato Aretusa per la grande acqua zampillante dalla terra, in onore della Ninfa delle Acque. Però stabilì la sua dimora al di qua dell’Esaro, lasciando la piccola piana alla quale fanno corona delle collinette che da Capo Zeffirio arrivano al fiume e che il fiume delimita fino al mare. Questo, saprai, fu il primo rifugio dei locresi, ma mio padre preferì la terra che i nostri progenitori chiamarono Kramazia, per la terra bianca che serve per lavorare la terracotta.»
Zaleuco ascoltava senza interrompere. Ma i suoi pensieri tornarono alla fanciullezza bruciata sulle alture del Promontorio di Zeffirio, quale pastorello, servo di Telemaco, locrese, che teneva sopra Aretusa le sue greggi, che egli faceva pascolare fino al promontorio con il rischio che qualche capra finisse nel burrone. Ma la bellezza del mare, che dal promontorio si vedeva e che sfumava dal blu più intenso all’azzurro chiaro, fino a diventare verde attorno agli scogli che erano quasi ai piedi del promontorio, gli dava una sensazione di potenza, sì da avere il coraggio di sfidare l’ira del padrone. La mattina si alzava presto, lasciando il giaciglio dove risposava a ridosso del promontorio, per vedere a oriente alzarsi il sole, che illuminava Aretusa e suoi acquitrini prima e il monte poi, e sentire sulla pelle la brezza che ti invogliava a sdraiarti e dormire, con il suo femmineo accarezzare, fino a quando la voce di Timeo, mandriano di Telemaco, non lo riportava alla realtà. I ricordi erano tanti e non avevano più il contorno dell’amarezza, ma del rimpianto. Coprivano l’arco della sua fanciullezza fino a quando, compiuto il sedicesimo anno di età, non decise di imbarcarsi in una spedizione in aiuto di Sparta. Da quella spedizione iniziò la sua avventura sulla terra, la sua devozione a Minerva e il favore della Dea che gli dettò le leggi locresi. Tutti questi pensieri nella testa di Zaleuco furono vissuti in un attimo.
Lisippa neppure si accorse del turbamento del magistrato e continuò, sempre con la stessa voce profonda, quasi maschile.
«Mio padre era pescatore, e il fiume forniva una grande quantità di anguille e si poteva nei lacustri pescare pesce di acqua dolce e nel pescoso mare ogni altro pesce.»




