
A bocce ferme, con i dati ormai consolidati delle elezioni regionali calabresi che hanno sancito la storica riconferma di un presidente uscente, nel caso di specie Roberto Occhiuto, c’è un verdetto che sovrasta ogni altro: il vero vincitore è ancora una volta il partito dell’astensione. Un partito trasversale, silenzioso e potentissimo, che non ha bisogno di programmi, slogan o capilista, ma che poggia le sue basi sulla disillusione, sulla stanchezza, si quel senso di distacco che ormai sembra aver contagiato anche i più fiduciosi tra gli elettori.
Nel 2025, in Calabria, alle urne è andato solo il 43,14% degli aventi diritto, un punto percentuale abbondante in meno rispetto al 44,36% del 2021 e inferiore persino al poco lusinghiero 44,08% del 2014. Più di un calabrese su due ha scelto di non scegliere. E questo nonostante la posta in gioco fosse la guida di una Regione che vive contraddizioni strutturali ataviche e avrebbe più che mai bisogno di una partecipazione consapevole. Sanità commissariata, infrastrutture fragili, fuga dei giovani e precarietà endemica resterebbero, a rigor di logica, terreno fertile per il dibattito e per un voto carico di passione civile (tant’è che più di un candidato si è giocato la carta del “copia-incolla” per stilare il proprio programma elttorale). E invece, l’indifferenza regna sovrana. La democrazia, ormai, sembra non entusiasmare più nessuno, né nei borghi né nelle città.
Il trend è nazionale e inesorabile. Alle politiche del 2022 ha votato il 63,9% degli italiani, quasi 10 punti in meno rispetto al 2018 e ben 12 in meno rispetto al 2013. Un crollo che racconta un Paese stanco di promesse, svuotato di fiducia. Nelle europee del 2024, poi, il dato ha toccato un drammatico 49,7%, con la Calabria ferma al 40,29%. Un elettore su due, in media, ha preferito restare a casa a riprova, forse della distanza siderale che si avverte da un’istituzione sulle cui funzioni il dibattito pubblico si è sempre voluto esprimere con scarsa chiarezza. Non parliamo poi dei referendum, un tempo simbolo della partecipazione popolare, per i quali si è passati dal 65% del 2016 al misero 20% del 2022, a riprova non solo che l’Italia smette di votare, ma sembra addirittura farlo con sollievo.
Perché? Perché i partiti hanno smesso di parlare ai cittadini e hanno iniziato a parlarsi addosso. Le argomentazioni politiche sono diventate autoreferenziali, un linguaggio criptico di addetti ai lavori che non intercetta più le ansie, i bisogni e i sogni di chi ogni giorno fa i conti con precarietà, disoccupazione, mutui e burocrazia. Tra classe dirigente ed elettorato si è aperto un solco profondo, forse ormai insanabile. I leader si inseguono sui social a colpi di slogan, mentre il cittadino cerca invano qualcuno che gli spieghi come pagare una bolletta, come ottenere un servizio pubblico dignitoso, come sentirsi parte di una comunità.
L’italiano medio – e il calabrese in particolare – non ha più voglia di democrazia. Si sente spettatore di un film già visto, incapace di cambiare la trama, condannato a un’eterna “replica” di promesse tradite. Non partecipa più alla vita del proprio Comune, ignora il dibattito europeo e guarda con cinismo al Parlamento nazionale. Osserva, sconsolato, ciò che altri scelgono per lui, mentre l’astensione diventa la forma più comoda di protesta: silenziosa, ma devastante. La rassegnazione ha sostituito l’indignazione, e la politica ha perso il suo valore pedagogico, diventando intrattenimento sterile.
Forse servirebbero misure drastiche per invertire la rotta: un “bonus voto” con detrazione fiscale per chi si reca alle urne; un “reddito di partecipazione democratica” legato alla presenza nei seggi; o ancora, un reality show elettorale dove il vincitore si guadagna la fiducia del pubblico non con le promesse, ma con le prove di coerenza in diretta TV. Si potrebbe persino immaginare una “lotteria del voto” (qualcuno l’ha già fatto a livello locale), con premi per chi dimostra di credere ancora nella democrazia. Ironia a parte, il problema resta serissimo, perché la disaffezione politica sta corrodendo le fondamenta stesse della democrazia, svuotando di senso le istituzioni e rendendo ogni vittoria elettorale sempre più virtuale.
I partiti farebbero bene a darsi una svegliata. Perché continuare a brindare a maggioranze assolute costruite su minoranze reali significa festeggiare vittorie di Pirro destinate a entrare nei libri di storia non come trionfi politici, ma come l’ultimo, malinconico atto di una Repubblica che ha dimenticato il senso della parola “partecipazione”. Chi governa con il consenso di meno della metà dei cittadini governa su sabbie mobili, e ogni passo in avanti rischia di diventare un lento sprofondamento.
Se non cambierà qualcosa (e presto) l’Italia rischia di restare un Paese dove la sovranità non appartiene più al popolo, ma alla sua indifferenza. E quando l’indifferenza diventa sistema, la democrazia non muore con un colpo di Stato, ma per consunzione lenta, tra gli applausi tiepidi di chi non ha più niente da dire, né da chiedere.




