
Di Giuseppe Pellegrino
«Pensa, magistrato che per prendere le anguille era sufficiente per mio padre mettere dei canestri lunghi a bocca stretta nel fiume quando l’acqua scema e non è violenta, e di tanto in tanto tirarli su – proseguì Lisippa sempre rivolta a Zaleuco. – Bastava una piccola rete per prendere pesci di acqua dolce più di quanto ne potevamo vendere. Vivevamo una vita semplice e serena. L’inverno non era mai rigido e il sole dell’estate non mordeva la pelle. Anzi,poco dopo il calar della sera si alzava dai monti sempre Zeffiro, il vento di occidente, e rendeva le notti fresche. Ma la natura a volte è imprevedibile come un cavallo di razza, ma bizzoso. Io ero da poco diventata donna quando una notte il mare si mise ad urlare. Per la prima volta in vita sua, mio padre aveva commesso il grave errore per un pescatore di non prevedere un cambio di tempo così repentino e aveva lasciato la barca sulla spiaggia. Dal promontorio di Zeffirio si levò una nube oscura e grigia che nascose di colpo luna e stelle. Il mare urlava come se fosse violentato dal vento e le onde diventarono presto enormi; l’acqua dal cielo cominciò a cadere furiosa. Mio padre pensò di salvare la barca, unico mezzo di sostentamento; mia madre lo seguì.Io restai a casa impaurita per come mi aveva ordinato mio padre. Non vidi più neppure i loro corpi. Il mare, forse per il troppo amore che mio padre aveva per lui, non li restituì più. Disperata, cessata la bufera, andai sulla spiaggia e vi tornai per giorni. Ben presto finirono la mia speranza e le provviste. Mi recai al Ceramidios, la fabbrica di mattoni e chiesi spudoratamente cibo. Mi fu dato per giorni dal padrone e io diedi a lui la mia giovinezza. Ho passato tutto il mio tempo a Cramazia a dare amore ai marinai che sbarcavano al porto e a ricevere quanto bastava per il mio sostentamento. Ma nessun patto vi era prima. Io davo me stessa con sincerità, senza nulla a pretendere. Chi voleva poteva aiutarmi. E non mi fu usata mai violenza ed anzi trattata come una compagna di desco.Spesso qualche marinaio mi portava stoffe e vesti pregiate, per il solo gusto di fare un regalo senza chiedere niente. Nefele fu figlia della mia inesperienza. A lei niente ho nascosto mai, ma mai a nessuno ho permesso neppure sguardi lascivi. Un giorno venne Ilone, credo per caso. Era da giorni che aspettava una nave al porto che non arrivava. Decise allora di ritornare a Locri con i carri pieni di pece che non era riuscito ad imbarcare. Quando i carri passarono davanti alla casa, che era di mio padre, uno di essi si fermò. Scese un uomo piccolo e poco aggraziato e chiese dell’acqua. La chiese con tutta la grazia che un corpo sgraziato riusciva ad esprimere. Vedendo Nefele, la chiese come se l’arsura gli bruciasse la gola e il corpo e volesse essere salvato. Nefele non stava bene. Si era presa un malanno cadendo in un fosso pieno d’acqua mentre andava alla ricerca di cicoria selvatica. Nefele diede acqua fresca della fonte che sgorga dalla terra vicino al mare, e vi aggiunse vino. Ringraziò Ilone a suo modo. Prese da un borsello di cuoio una pietra che sembrava tinta di sangue e la porse a Nefele dicendo:“È elektron, ambra, e viene da Taranto. Lì la usano anche per fare monili. Bruciata da ristoro agli occhi, alla gola e ai polmoni.Tu non sai il suo valore, ma vale sempre meno del ristoro che mi hai dato”.Nefele prese la pietra con la gioia di una bambina.
Ilone fece il gesto, forse, per ostentazione della sua ricchezza, forse per fare colpo su Nefele. Nefele non aveva mai ricevuto un regalo. Bruciò l’elektron la sera ed ebbe, in effetti, grande giovamento.
Ritornò Ilone altre volte e ogni volta con un regalo che Nefele conservava. Un giorno ci parlò di Euridice e della sua infelicità. Continuò parlando della sua fede nei riti di Orfeo e che alla sua morte ,se l’anima sua non fosse stata degna dei campi elisi si sarebbe reincarnata forse in un animale, forse in un pesce, forse in un corpo meno disgraziato. Ci raccontò del suo progetto politico grande che aveva per Locri, che considerava la sua vera patria, e ci fece capire che persone importanti lo aiutavano. Non so se il suo agire, Pastore, fosse dannoso per te, ma ti posso assicurare che il suo cruccio era quello di non potere avere in te un alleato. E venne il momento che chiese di portare Nefele a Locri. Confidò il suo timore dei tradimenti di Euridice, ma non aveva la prova che avrebbe permesso la giusta vendetta che spetta all’uomo tradito. Nefele mi guardò. Aveva capito che il suo sarebbe stato il ruolo dell’amante e non quello di compagna di desco. Io guardavo Ilone con gli occhi e con il cuore. Gli occhi vedevano solo un uomo quasi deforme, ma il cuore un’animo gentile. Nefele non aveva che il cuore. Si rivolse con la sguardo a me temendo una mia contrarietà. Disse a mia figlia che avrei rispettato ogni sua scelta. E lasciammo la casa di mio padre e ci trasferimmo in un casa ben più agiata, che aveva anche le latrine. Era vicino a Centocamere, ma isolata ,sicché nessuno potesse osservare quanto avveniva.»




