Costume e SocietàLetteratura

Il consenso informato

Le riflessioni del centro studi

Di Domenico Naccari (Avvocato del Foro di Roma) e Pasquale Gara (addetto all’Ufficio del Processo presso la Corte d’Appello di Roma)

Affrontare il problema del consenso del paziente rispetto alle cure, all’attività chirurgica o alla sperimentazione medica, significa affrontare un duplice ordine di problemi.
Il primo è relativo all’aspetto strettamente etico, il secondo a quello giuridico.
L’aspetto etico è la conseguenza della consapevolezza del paziente di essere una persona, con i suoi diritti, la sua integrità e la sua dignità, per cui ogni trattamento su di esso deve preventivamente essere autorizzato.
L’aspetto giuridico presuppone quello etico, ma si arricchisce del momento del rispetto delle norme giuridiche che regolamentano il consenso informato, visto nelle sue procedure e negli elementi giuridici necessari che esso presuppone.
L’individuazione dei presupposti che rendono lecito un trattamento sanitario è un argomento ancora estremamente attuale che, oltre a essere oggetto di un perdurante dibattito dottrinario anche in campo medico legale, sottolinea in primo luogo il pieno superamento culturale dell’opinione per la quale, in forza della sua utilità sociale, il trattamento sanitario sarebbe sempre autolegittimato.
Fino a qualche anno fa si riteneva, infatti, che l’obbligo di acquisire il consenso, preceduto dalla corretta informazione circa il trattamento che sarebbe stato eseguito, sussistesse solo nei casi in cui venivano poste in serio pericolo la vita o l’incolumità fisica del paziente. Si sosteneva che il trattamento sanitario trovasse la propria autogiustificazione in quanto attività funzionale alla salvaguardia di beni di rango costituzionale quali la salute e la vita stessa del paziente.
Oggi, invece, non vi è dubbio che, in ragione dell’art. 32, comma 2, Carta Costituzionale, a ogni individuo è riconosciuto il diritto fondamentale di rifiutare le cure, salve alcune limitazioni previste espressamente dalla legge.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere cheil dovere di acquisire il consenso informato da parte del medico sussista non solo in relazione alla necessità di intraprendere interventi demolitivi e complessi, ma anche in relazione a ogni attività medica che possa comportare un qualsiasi margine di rischio. Il medico, quindi, ha il dovere di acquisire il consenso sia quando intende compiere attività chirurgica, sia quando intende compiere semplici esami diagnostici o strumentali.
In particolare, dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori, salvo i casi previsti dalla legge, e dal diritto alla salute, inteso come libertà di curarsi, discende che il presupposto indefettibile che giustifica il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta libera e consapevole della persona che a quel trattamento si sottopone.
Iadecola ci ricorda che i beni tutelati sono quelli che “afferiscono alla libertà personale nella sua complessità, non solo alla libertà morale (autodeterminazione) ma anche al rispetto dell’integrità fisica e dell’incolumità del paziente”.
Ne scaturisce, allora, che un’attività medica esercitata arbitrariamente, prescindendo dal consenso, configuri sul piano della responsabilità penale  (ma con evidenti implicazioni anche su quelli civilistico e disciplinare) sia il delitto di violenza privata (reato contro la libertà morale) che quello di lesioni personali volontarie (reato contro l’incolumità individuale), potendosi per tale via giungere a ipotizzare l’ipotesi delittuosa di omicidio preterintenzionale.
Ove manchi o sia viziato il consenso “informato” del paziente e non si versi in situazione di incapacità di manifestazione del volere o in un quadro riconducibile allo stato di necessità, il trattamento sanitario risulterebbe eo ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare. Ed è proprio in quest’ultima prospettiva che assume uno specifico risalto la normativa elaborata dagli organismi professionali in campo di deontologia medica; giacché da essa, per un verso, si chiarisce la portata del «circuito informativo» che deve collegare fra loro medico e paziente in vista di un risultato che – riguardando diritti fondamentali – non può non essere condiviso e, dall’altro lato, è destinata a concretare, sul terreno del diritto positivo, le regole che costituiscono il “prescrizionale” per il medico, la cui inosservanza è fonte di responsabilità.
A seguito della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (Oviedo, 4 aprile 1997), anche il codice deontologico ha proceduto a una revisione del concetto di consenso informato, elaborando una definizione più in linea con i parametri interpretativi suggeriti dalla stessa Convenzione.
Oggi, finalmente, il legislatore con un preciso intervento legislativo (L. 219/2017) ha posto fine a ogni possibile equivoco interpretativo, dedicando un’apposita disposizione normativa al concetto di “consenso informato” e sancendo, in via generale ed astratta, l’obbligo del medico di informare il paziente.
Dobbiamo però chiederci se, a fronte della complessità e responsabilità che gravano intorno al sistema medico-sanitario, il legislatore abbia effettivamente colto l’evoluzione della professione medica e, in generale, della medicina, offrendo le giuste risposte ai problemi che da tempo affliggono l’istituto in questione.

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 18/04/2024

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