La condanna di Tirso: una giustizia silente che divise Locri
La Repubblica dei locresi di Epizefiri
Di Giuseppe Pellegrino
«Voi, o Chiloi, voi che rappresentate le certezze di Locri, voi giudicate se di certezze Locri può ancora vivere.»
Qui il Legislatore si fermò e non andò oltre. Se la perorazione della modifica di Tirso aveva avuto un grande impatto emotivo, la difesa di Zaleuco era improntata a una concretezza estrema. Non si allontanarono i Chiloi dall’Agorà. Ciascuno di loro si pronunciò liberamente sulle proposte, seppur nessuno commentasse la sua stessa decisione. Alla fine non un Aristos si pronunciò a favore di Tirso. La decisione dei Chiloi era certo fondata su convinzione della giustezza della legge, ma non fu estraneo il timore che incuteva Zaleuco.
Agesidamo, che non si era mosso dal suo scranno, mentre tutti gli altri Chiloi stavano sempre in piedi, si rivolse a Tirso e disse:
«Tu la pena la conosci, tocca al Polemarco Zenone far rispettare le leggi locresi.»
Zenone, il Polemarco, si avvicinò a Tirso, che aveva accolto la decisione senza un cenno di disappunto e fece con la testa solo un lieve cenno di assenso. Si alzò dallo scranno da dove aveva sentito la perorazione di Zaleuco e con il cappio al collo e la corda nelle mani, seguito dal Magistrato, si portò sotto la forca. Qui vi era già Agesilao con un carro. Tirso salì agilmente sul carro e porse la cima della corda all’oplita, che salì sulla sponda e legò al palo posto di traverso ed appoggiato su altri due ben piantati. Non guardò nessuno, Tirso, se non la corda che dalla forca arrivava al suo collo. Agesilao scese dalla sponda del carro. Lentamente si avvicinò alle briglie del cavallo e rivolse lo sguardo al Polemarco, che fece cenno con la testa di procedere. Agesilao pian piano fece andare l’animale in avanti. Tirso non aspettò che il carro trascinasse il corpo, ma alla fine della corsa agilmente saltò. Nessun grido, nessun cenno di paura, ma il rumore di collo rotto e la lingua di fuori furono la sola manifestazione dell’uccisione del giovane. Solo il cappio stretto al collo e tirato su dalla corda fece spostare lo sguardo del giovane che era stato sempre verso il cielo a guardare il lastrico dell’Agorà.
Neppure un locrese gridò. Nessuno fece cenni di assenso o di approvazione. Un silenzio di tomba avvolse l’Agorà. Tutto ora sembrava già essere stato scritto prima e nessuna meraviglia poteva provocare l’evento. Il popolo Locrese fu solo tacito testimone di quello che era avvenuto. La sua parte era finita. Ora, ognuno poteva tornarsene a casa.
Zaleuco aveva assistito all’esecuzione di Tirso come comune cittadino. Era alla Damos che spettava il compito di sorvegliare, e al Polemarco provvedere al cappio, dopo le sue decisioni di rigetto sulle proposta di modifica della legge. Aveva assistito allo spettacolo del popolo in silenzio e la cosa aggravò il suo stato d’animo. Un’angoscia si era impossessata del suo stomaco e l’occhio mancante più che mai doleva. Inutile il palliativo di premere con l’indice nell’orbita vuota. Né il dolore né l’angoscia si attenuavano. Fece il legislatore qualche passo verso casa, quando vide qualcosa che gli procurava la sensazione che da qualche tempo era condannato a rivivere la stessa scena per due volte. La stessa morte Ilone e Caronda. La stessa morte, in fondo, sua madre ed Euridice. La stessa morte Tissaferne e Tirso. Ora la replica si stava perfezionando perché ai piedi dell’impiccato Tirso si stagliava la figura di un uomo eretto con lo sguardo verso il cadavere. Non dimenticava Zaleuco il saluto di Tirso a Tissaferne appeso a un palo. Ora, la figura eretta era quello di un vecchio, che non nascondeva le lacrime, contraddicendo l’uso che a Locri di non piangere i morti. Ma ai poeti ogni licenza era concessa. Senocrito non nascondeva le lacrime. Non nascondeva il suo canto estremo che era pianto, rimpianto, dolore soprattutto. Con gli occhi rivolti al cadavere che stava in alto e che sembravano sfidare il cielo, Senocrito giurava:
«Orfeo mi è testimone, Tirso. Ti ho amato più della mia carne. Più del mio credo. Persino più della mia poesia. Quando sei venuto al mondo, Minerva, Apollo, Ermes e tutti gli altri Dei hanno fatto corona alla tua nascita, se ti hanno dato intelligenza, bellezza, ingegno e nobiltà d’animo. Ma io, ora mi domando. Se tutto è ordine, come dice Zaleuco, e niente è lasciato alla Tuchè, al caso, che senso hanno avuto le tante fatiche degli Dei, che tutto sanno, per fondere in un suolo uomo tante virtù, se non ignoravano che il filo della tua vita era corto? E perché gli Dei, che tutto sanno, non sono intervenuti? Dobbiamo, dunque, credere che agli uomini è lasciata la scelta di decidere della loro esistenza e che per Locri tu, Tirso, eri il futuro che abbiamo avuto paura di cogliere? Se così è, oggi della tua morte non sono responsabili solo il Consiglio dei Mille e le leggi di Zaleuco. Ognuno di noi si porta sulle spalle la responsabilità della tua morte. Anche io. E questo è un peso che non sopporto, che nessun locrese può sopportare senza vergognarsi.»
Così diceva il poeta e Zaleuco sentiva e non sentiva quelle parole e le altre che, come un fiume in piena, rivolgeva a Tirso. Zaleuco si girò e incominciò a guadagnare la via di casa, ma la fitta dentro e il dolore all’occhio non lo abbandonavano.