Le Leggi Razziali e quell’ombra che ancora incombe sulla storia italiana
Quel che Nessuno vi ha detto

Bentornati a Quel che Nessuno vi ha detto, rubrica con la quale analizziamo eventi storici avvenuti nella data di pubblicazione, valutandone le implicazioni e le conseguenze che ancora oggi influenzano la società contemporanea.
Il 18 settembre 1938, Benito Mussolini prese la parola in una gremita Piazza Unità d’Italia di Trieste, dando lettura ufficiale delle Leggi razziali. Quell’episodio, che ancora oggi suscita dolore e indignazione, segnò una svolta irreversibile nella storia italiana, trasformando il regime fascista in un sistema apertamente discriminatorio e ponendo l’Italia in una linea di continuità con le politiche razziali della Germania nazista. Non si trattò di un atto isolato, ma del culmine di un percorso ideologico maturato negli anni, che trovava nelle alleanze internazionali e nel clima politico dell’epoca la sua linfa vitale.
Alla fine degli anni Trenta, l’Europa era attraversata da venti di guerra e da tensioni radicali. Il fascismo, al potere in Italia dal 1922, aveva consolidato la sua presa attraverso il controllo dei media, la repressione del dissenso e la creazione di un consenso di massa. L’alleanza con la Germania di Hitler, sancita dall’Asse Roma-Berlino, esercitava un’influenza sempre più forte sull’agenda politica di Mussolini. In questo clima, la promulgazione delle Leggi razziali apparve come un naturale passo successivo, un gesto con cui il Duce intendeva ribadire la fedeltà dell’Italia al nuovo ordine europeo e consolidare la propria immagine di leader totalitario.
Le conseguenze furono immediate e devastanti: migliaia di cittadini italiani di origine ebraica furono esclusi da scuole, università, pubbliche amministrazioni, associazioni culturali e sportive. Intere famiglie si videro private del diritto al lavoro e alla partecipazione alla vita civile. La propaganda diffuse l’idea che tale discriminazione fosse necessaria per “difendere la razza italiana”, mentre una parte della società, assuefatta al conformismo del regime, rimase in silenzio o addirittura acconsentì. La storia ci mostra chiaramente come l’indifferenza collettiva possa trasformarsi in complicità, e come la propaganda, se non contrastata, diventi un’arma micidiale contro la dignità umana.
A distanza di quasi novant’anni, questo avvenimento si impone con una forza inquietante. Il ritorno di radicalismi politici, l’aumento dei discorsi d’odio e le tensioni internazionali, con i riflettori oggi puntati sulla tragica situazione a Gaza, ci ricordano quanto la storia sia un avvertimento costante. In un contesto globale fragile come quello contemporaneo, la memoria di quel giorno del 1938 è la prova che le libertà civili non sono mai acquisite una volta per tutte e che i diritti umani necessitano di una difesa vigile e continua. Osservando le immagini di conflitti, migrazioni forzate e persecuzioni, non possiamo ignorare il parallelo con quanto accadde quando l’Europa scivolò nel baratro del totalitarismo. Gli stessi meccanismi di paura, propaganda e disumanizzazione possono manifestarsi sotto forme nuove, più sottili ma non meno pericolose, che i partiti di oggi non esitano a promulgare e cavalcare esattamente come avvenne in quegli anni oscuri. La memoria storica, allora, diventa uno strumento essenziale per riconoscere i segnali premonitori: l’odio verso le minoranze, la retorica del nemico interno, la giustificazione della violenza in nome della sicurezza o della purezza culturale.
Raccontare e ricordare i fatti di Trieste non è un esercizio accademico: è un dovere morale. Significa interrogarsi su come la società di allora abbia potuto accettare leggi ingiuste, e su come noi, oggi, possiamo impedire che la storia si ripeta. La lezione più importante che emerge da quel giorno è che la democrazia e la giustizia non sopravvivono senza la partecipazione attiva dei cittadini, senza la capacità di dire no all’ingiustizia e di difendere chi è più vulnerabile. In un’epoca in cui il mondo sembra nuovamente in bilico tra paure, conflitti e tentazioni autoritarie, questo anniversario è un monito potente e necessario. Ci ricorda che ogni legge discriminatoria nasce sempre da un consenso, da un silenzio, da un’inerzia collettiva. Difendere i diritti umani significa non solo condannare le violazioni passate, ma agire nel presente, vigilando affinché odio e propaganda non trovino terreno fertile. Solo così la memoria di quelle vittime potrà trasformarsi in un argine contro le ingiustizie di oggi e di domani.
Foto da Attilio Tamaro, Venti anni di storia – 1922-1943. Editrice Tiber, Roma, 1953, Pubblico dominio




